Il compito mostruoso dell’attore

Magdalena Pietruska e Roger Rolin
Institutet för Scenkonst (Svezia)

IL COMPITO MOSTRUOSO DELL’ATTORE È QUELLO DI ESSERE CONSAPEVOLMENTE SPONTANEO1.

La creazione è l’espressione suprema dell’essere umano. La ricerca sull’arte dell’attore, cioè nel campo dell’espressione artistica dove l’artista e la sua opera sono inseparabili, va oltre lo studio dei segreti del mestiere, abbracciando la problematica della condizione umana, la conoscenza e la meditazione sullessere uomo. Una ricerca di una possibile comunità al di là delle frontiere della propria ignoranza e della propria mediocrità. Una ricerca che segue una sola logica: la Logica della Passione. Nel nostro lavoro facciamo una distinzione netta tra ricerca e cercare artistico. Il cercare artistico, cioè la ricerca sulle diverse modalità d’espressione, mira ad un risultato artistico, obiettivo che ne condiziona il processo. La ricerca è, invece, un desiderio di capire il fenomeno del processo creativo, il suo meccanismo, e non è legata a scelte o ad un risultato artistico specifico. La ricerca parte da ciò che è già stato vissuto, percepito o intuito nella pratica ed è, per forza di cose, empirica. Il lavoro di laboratorio comporta ore, mesi, anni di fatica, di sonno, di sbagli, di illusioni e soprattutto di costanza.  Ma i risultati, contrariamente ad altre ricerche scientifiche, non esistono e non possono esistere oggettivamente, né essere tangibili. I risultati sono inscritti nei corpi e nella mente del gruppo dei ricercatori e non sono trasferibili. La ricerca è un’avventura unica di quel gruppo di persone. Esiste una sola situazione in cui i risultati si materializzano: l’incontro con lo spettatore. D’altra parte il lavoro di ricerca conduce a constatare probabilità e improbabilità. Queste, a volte, sono tanto semplici da sembrare una “scoperta dell’America”, soprattutto per chi non ha compiuto il viaggio e perciò non ha accesso alla ricchezza e alla complessità del percorso fatto per giungere alla semplicità. Altre volte esse vengono addirittura percepite come certezze e come tali diventano oggetto di imitazione, di consumazione come “metodi”. Quel fare “a regola d’arte” è un risultato paradossalmente opposto all’origine della ricerca e decisamente nocivo alla creazione. È soltanto una nuova convenzione. Ciò che è trasferibile richiede necessariamente il contatto diretto, la condivisione dell’esperienza empirica in una situazione, per esempio, pedagogica. I principi trovati nel lavoro di ricerca si traducono in compiti pratici: un esercizio, una tecnica, un approccio proposto come un punto di partenza, un riferimento e uno stimolo per la successiva ricerca, ma mai come un risultato da applicare. La ricerca non è fatta per trovare le risposte definitive, ma per formulare le domande. Per capire cosa si trova mentre si cerca. Di conseguenza, ciò che è trasferibile è un certo atteggiamento verso il lavoro, la curiosità e l’aspirazione a intraprendere il proprio processo per immergersi nell’universo del tacit knowledge. La ricerca sull’arte dell’attore ha, alle sue origini, il desiderio di creare un nuovo teatro, diverso da quello esistente, divenuto sterile e convenzionale. È la ricerca di una nuova etica del “fare teatro”, di un rapporto diverso con lo spettatore, di una collaborazione diversa tra attore e regista. Inizia così un esame attento del protagonista dell’atto teatrale: l’attore. Negli studi e nei laboratori cominciano gli esperimenti, i chiarimenti e le precisazioni sugli strumenti del mestiere dell’attore, in quanto veicoli della creazione. Attraverso tecniche diverse, approcci e riferimenti che seguono le preferenze ed esperienze personali dei singoli ricercatori e delle persone con le quali condividono la loro ricerca, appare un attore sempre più consapevole, abile, autonomo. Uno strumento prezioso della creazione assieme al regista, di cui, allo stesso tempo, si precisa il nuovo ruolo. Il regista diventa così la guida, l’osservatore, il testimone, il primo spettatore. L’improvvisazione viene usata come un elemento vitale del processo creativo, in rapporto al lavoro sullo spettacolo e in rapporto alla dialettica di collaborazione tra l’attore e il regista. Nel momento della realizzazione dello spettacolo però, ovvero nel momento in cui ci si confronta con la problematica della coerenza e della ripetitività dell’evento teatrale, il rapporto tra attore e osservatore cambia radicalmente. Indipendentemente dalle diversità di visione e dalle scelte artistiche dei singoli registi, resta comune la nozione del regista come unico autore dello spettacolo. L’attore è l’autore dell’istante, ma rimane sempre il regista che ne decide la modalità, per collocarlo in funzione alla composizione della totalità di cui è l’unico autore. Il punto di partenza della nostra ricerca è diventato, quindi, l’obiettivo di arrivare all’attore improvvisatore, capace di divenire autore, non solo protagonista, della creazione collettiva hic et nunc. E trovare di conseguenza, un procedimento di costruzione dello spettacolo in cui il rapporto dialettico tra regista e attore permanga, permettendo all’attore di diventare co-autore della totalità. È il meccanismo della creazione, il processo stesso, che l’attore deve ri-creare, assumendosi la responsabilità per la coerenza della totalità. La nostra ricerca si concentra perciò sul chiarimento di principi fondamentali della creazione hic et nunc, in relazione alla natura ripetitiva dell’arte dell’attore. Il lavoro inizia dall’indagine sulle manifestazioni fisiche dei concetti mentali come, ad esempio, il concetto di libertà. Cosa farebbe l’attore non più lasciato in balia dei capricci dell’ispirazione, ma già munito della conoscenza e della pratica di un approccio concreto e fisico al lavoro, in una situazione di totale libertà, cioè priva di imperativi esterni quali, ad esempio, un tema su cui lavorare o l’intervento attivo di un osservatore? Dopo un primo choc, causato da quella libertà forzata e non tanto gradita, l’attore trova la propria prigione: la limitazione imposta, questa volta, da se stesso. L’improvvisazione libera si trasforma in una variazione e in uno sviluppo del primo passo compiuto in libertà; analogamente all’improvvisazione musicale, essa diventa un’indagine sulle conseguenze della scelta del primo accordo. Questo tipo di lavoro “libero”, chiamato nella nostra terminologia “lavoro personale”, diventa il laboratorio dove l’attore pratica la ricerca e lavora sui temi personali che costituiscono la sua tematica fondamentale. Inoltre, la definizione di improvvisazione, in termini di variazione e sviluppo, comporta importanti conseguenze per il lavoro dell’attore, sia per quel che riguarda il trattamento dei materiali e dei temi personali, che l’improvvisazione collettiva. L’attore, nel suo lavoro quotidiano, cerca di riprendere le stesse cose, ne trova di nuove, eccetera. Però, senza l’aiuto di un occhio esterno (l’osservatore), i gesti e i movimenti subiscono delle variazioni più o meno grandi rispetto al loro aspetto originario. L’attore è convinto di rifare la stessa cosa, non accorgendosi del cambiamento. L’osservatore, d’altra parte, può riconoscere l’atto originale, malgrado imprecisioni nella forma esteriore. In un altro possibile scenario, l’attore compie un atto già precedentemente conosciuto cambiandone volutamente la forma, convincendosi così di compierne uno nuovo, mentre l’osservatore può constatare che è sempre la stessa cosa. Di conseguenza deve esistere qualcosa al di là della forma esatta del gesto, qualcosa che l’attore cerca di conservare con precisione, o che si conserva da sola, malgrado l’attore. A partire da questa constatazione, inizia tutto il lavoro di ricerca e di definizione dei vari concetti come intenzione, equivalenza, senso e significato, in rapporto al lavoro dell’attore e alla natura ripetitiva della sua arte. Un atto ha un senso. Ogni atto che l’attore compie ha un senso per la sola ragione di essere nato, per la sola ragione di esistere. L’attore, allora, è il portatore del senso, che traspare tramite gli atti che compie. Da questo punto di vista il senso è la vita dell’attore, completa della storia, della memoria, del presente, dei sogni, dei sentimenti, dei pensieri e di tutto quello che costituisce l’esistenza unica ma universale dell’essere umano. Nella vita quotidiana il senso dell’uomo appare e si riconosce seguendo il percorso del tempo e dello spazio di tutta la sua esistenza, con i suoi percorsi complicati che si contraddicono e si intrecciano, con atti essenziali e gratuiti, con atti che lasciano intravedere il senso e atti che lo nascondono. Il senso è una logica e una coerenza che non possiede in sé una forma sola, né un solo significato. Il senso è quell’elemento riconoscibile che si manifesta tramite forme e significati diversi2. Un atto compiuto nella vita è sempre adeguato alla situazione, cioè è sempre in rapporto all’insieme degli elementi che creano il contesto nello stesso momento in cui avviene l’azione. Il contesto definisce il significato dell’atto. Se cambia il contesto cambia anche il significato e il senso dello stesso atto può, perciò, assumere significati diversi. Il significato è il risultato dell’insieme dei fattori interiori ed esteriori dell’uomo. Non appartiene al presente dell’uomo, ma al suo futuro. “Essere adeguato” vuol dire scegliere il modo e la forma dell’atto in relazione al senso, cioè in rapporto a ciò che è e non in rapporto al significato, cioè a ciò che diventa. Nella realtà quotidiana il problema della separazione tra senso e significato è risolto dalla vita stessa, dalla sua imprevedibilità, dall’esistenza di quell’elemento sconosciuto, “casuale”, che modifica ogni tentazione da parte dell’uomo di impadronirsi del futuro, costringendolo ad esistere nel presente. La realtà teatrale, essendo una finzione creata da un artista (attore, regista, drammaturgo, ecc.), è invece facilmente vittima della confusione tra significato e senso. L’attore crea il suo contesto e il “caso” non entra più in gioco se non gli è permesso, se cioè non viene previsto uno spazio aperto ad un elemento sconosciuto. Questa contraddizione fra la realtà controllata e l’esigenza di agire nel presente è una difficoltà che facilmente crea confusione. La conoscenza della relazione fra senso e significato e delle conseguenze pratiche che ne derivano diventa, pertanto, la difficoltà primordiale del lavoro dell’attore. Cercando di rimanere fedele al significato l’attore si basa sulla memoria intellettuale dell’accaduto. La ricchezza e la complessità originale dell’atto si riducono così al significato percepito e capito intellettualmente, cioè organizzato in un modo logicamente spiegabile. Di conseguenza l’atto rimane legato alla sua interpretazione e l’attore non lavora più su l’atto compiuto, ma sulla sua immagine. E così il senso sparisce anziché apparire più chiaro. Partendo dal significato per compiere l’atto l’attore lavora sull’interpretazione intellettuale del futuro, cioè su un’idea che include la sua realizzazione nel modo desiderato. L’atto viene così eseguito in funzione del risultato pre-concepito. Il senso diventa subordinato e posteriore al significato. Questo procedimento è una costruzione della logica intellettuale opposta al meccanismo della vita. In tutti e due i casi, l’attore, occupato dal passato o dal futuro, non agisce nel presente. L’attore si fa interprete delle idee, invece di essere una presenza hic et nunc. Se il significato è un alleato pericoloso per l’attore, il modo e la forma sono due elementi della manifestazione del senso più affidabili, in quanto legati all’esecuzione dell’atto stesso e non al suo risultato. Il modo – cioè il ritmo e la dinamica – e la forma del corpo nello spazio costituiscono il contesto fisicamente concreto e non hanno perciò necessariamente bisogno della precisione intellettuale. L’attore, lavorando sulla precisione nella forma, ricrea le condizioni fisiche quasi identiche alla manifestazione del senso nell’atto originale. In questo modo la forma diventa un filtro trasparente, un canale per l’apparizione del senso. Ma neanche la forma è un alleato ideale per l’attore in cerca di ri-creare l’atto compiuto. Ponendo troppa attenzione alla forma, l’attore corre il rischio di cambiare il senso che si è manifestato, invece di riconoscerlo. Oppure, concentrandosi sulla precisione della forma, corre il rischio di trasformarla in una sagoma. È la dinamica3 che è il veicolo del senso. È tramite la dinamica che si riconosce il senso manifestato nell’atto. Ogni atto nasce da una intenzione. L’intenzione è il movimento mentale conscio o inconscio che modifica fisicamente il comportamento corporeo4 . L’intenzione è perciò l’inizio di ogni atto, sia esso finalizzato o no. Dal punto di vista fisico l’intenzione si traduce nei movimenti muscolari che provocano il movimento del corpo nello spazio. Questi movimenti possono essere appena percettibili, ridotti nello spazio fino a diventare soltanto una vibrazione, una “immobilità mobile”5. L’intenzione indica la direzione mentale dell’atto, che non coincide necessariamente con la direzione nello spazio fisico. Inoltre, l’intenzione non si manifesta necessariamente tramite il movimento del corpo nello spazio, ma possiede la facoltà di concretizzarsi nello spazio fisico, sia tramite il movimento che l’immobilità del corpo. Il lavoro sull’intenzione è il lavoro sulla precisione mentale, che ha come risultato una forma fisica tanto precisa quanto adeguata all’atto che l’attore sta eseguendo. È il lavoro sull’equivalenza della spontaneità nella vita quotidiana e, pertanto, un principio fondamentale per il lavoro dell’attore. L’attore lavora sulla manifestazione del senso hic et nunc; il senso si manifesta tramite gli atti che l’attore compie; ogni atto nasce da una intenzione. E quindi, per ri-creare l’atto compiuto l’attore deve farne ri-nascere l’intenzione. La ricerca sull’arte dell’attore è anche una ricerca sui meccanismi della creatività umana. Esiste però una interpretazione del concetto di creatività che la definisce, tuttora, come una qualità esclusiva e propria dell’artista e quindi riservata all’espressione artistica. Questa interpretazione, abbastanza diffusa nella società, è frutto di una confusione analoga a quella che riguarda la relazione fra senso e significato. La creatività è la qualità innata, propria dell’essere umano, mentre l’arte è soltanto una delle sue molteplici espressioni. La creatività non è tangibile, non ha né un corpo, né una forma che si possa vedere o toccare. Quando ci si convince di essere privi di creatività, si rischia purtroppo di non cercarla neanche. L’atto creativo umano è, nella sua purezza, un atto compiuto al di là di ogni speculazione: un atto disinteressato. L’attore lo compie nella situazione di laboratorio, cioè nel lavoro di ricerca, dove l’esperienza vissuta e la costanza della pratica influiscono sulle strutture mentali, sul nostro modo di vedere, di percepire le cose e il mondo che ci circonda. È un processo di crescita e di espansione della coscienza, che si materializza nel momento dell’incontro con lo spettatore. La ricerca sull’arte dell’attore come autore della creazione hic et nunc è l’indagine sulle equivalenze del meccanismo della vita, che si manifesta nella realtà quotidiana. Il lavoro sulla creazione collettiva è, invece, la manifestazione del senso dell’attore in rapporto alla società utopica, che si concretizza nella realtà teatrale. Una società dove ogni individuo può vivere pienamente le sue potenzialità, dove la diversità è considerata una ricchezza, dove si convive nel rispetto reciproco, dove l’antagonismo tra l’individuo e la collettività non esiste, in quanto ognuno è partecipe autonomo e responsabile della totalità. L’evento teatrale accade per forza di cose in presenza di un altro: lo spettatore. Come si definisce il rapporto con questa presenza necessaria è una scelta basata su una visione del mondo, dell’arte e del lavoro dell’artista. Noi lo definiamo come un incontro. È un concetto mentale altrettanto vago come quello di libertà. Nel lavoro sull’improvvisazione collettiva l’attore si confronta con la problematica dell’imminenza dell’incontro tra gli uomini; imminenza la cui unica ragione è il fatto indiscutibile che insieme coabitiamo la terra e, anacronisticamente, la condividiamo. L’indagine sul concetto di incontro è essenziale e coerente con la visione del lavoro dell’attore come un processo continuo, in dialogo con il mondo circostante, dove l’evento teatrale fa parte di un contesto più ampio. La ricerca ha munito l’attore di strumenti validi per il suo lavoro d’artista. Sono gli stessi strumenti che permettono all’attore di condividere, al di fuori del teatro, il risultato sublime della ricerca, cioè l’accesso alla conoscenza dei meccanismi della creatività umana.  Il compito fondamentale per l’artista, l’intellettuale o il filosofo, cioè per chi ha scelto di dedicarsi alla meditazione sulla natura delle cose, è cercare di riconoscerne l’equivalenza nella loro essenza, al di là del mutare delle forme e del contesto che ne definisce il significato. Ma questo compito riguarda ogni essere umano, perché, se il protagonista della vita umana è l’uomo, la creazione collettiva che dobbiamo ricreare ogni giorno è la nostra società. Nella realtà artificiale del teatro la più grave conseguenza della confusione fra senso e significato non è che uno spettacolo presto dimenticato. Nella realtà quotidiana della vita le conseguenze di questa confusione sono ben più disastrose.

1 Da Pietre di Guado di Ingemar Lindh, Bandecchi&Vivaldi, Pontedera, 1998. Il Teatro Laboratorio Institutet för Scenkonst è stato fondato in Svezia nel 1971 da Ingemar Lindh, direttore artistico fino alla sua morte nel 1997.

2 Nella nostra terminologia usiamo termini francesi “sens” e “signification”, che non sempre trovano un equivalente esatto in altre lingue (ad esempio in Svedese o in Inglese). “Sens” è il significato che un atto possiede in sé, mentre “signification” è il significato che un atto acquista in un contesto.

3 Nel nostro lavoro intendiamo il concetto di “dinamica” come lo si intende nella musica. Da qualche anno proviamo a definirlo usando il neologismo “sentimozione”. Per evitare discussioni riguardanti le divergenze sulla definizione del concetto di “sentimento” e quello di “emozione”, abbiamo semplicemente combinato i due termini: senti (mento) + (e)mozione = sentimozione.

4 Il nostro concetto di intenzione nasce dall’osservazione della differenza tra “impulso” e “intenzione”. L’intenzione (il tendere verso) è di carattere mentale e precede l’impulso che è di carattere fisico e connesso direttamente al sistema nervoso, che comanda il movimento muscolare.

5 Termine di Etienne Decroux.

Teatro e Metodi Attivi